Chi mi conosce bene sa che non sono partigiano e aborro il divide-et-impera che ci mantiene in una realtà alternativa sospesa tra tutto bianco o tutto nero. E poi delle volte provo anche un certo piacere nel mettermi contro entrambe le fazioni di un determinato scontro ideologico.

Questo è il caso in cui mi trovo davanti ad una foto che sembrerebbe dire qualcosa, o meglio che secondo coloro che la stanno facendo girare direbbe un qualcosa che non mi pare corrisponda alla realtà.

La foto è quella di testa. Rappresenta un frame tratto da un video de “La Vita in Diretta”, trasmissione RAI che non frequento ma di cui mio malgrado sento parlare a volte online, di ieri.

Siamo a Torino e l’inviato fa vedere come si procede alla ventilazione non invasiva di un paziente che sta recuperando.

Nel contempo vediamo un altro paziente sul secondo lettino che gioca con lo smartphone (probaile che stesse inviando un messaggio a casa per dire “Sono in Tivvù!”).

Il frame gira con commenti del tipo: “Ecco la prova della messa in scena”.

Ora, siccome a me interessa capire cosa accade e, anche se ho formato una mia idea fortemente critica, non voglio esser schiavo del preconcetto ho verificato se ci fosse il video integrale.

Eccolo.

Ora, abbiate pazienza, ma sono un ovino teledipendente se dico che la scena mi sembra del tutto normale?

Credo sia plausibile dire che in reparto di terapia sub intensiva – magari la prossima volta il titolista eviti di mandare in sovraimpressione la frase sbagliata onde evitare malintesi – si possano trovare persone che hanno ancora bisogno del casco di ventilazione e altre che magari hanno esaurito il percorso in quel preparto, o sono lì per precauzione, e a breve ne potrebbero uscire.

Che poi per scrupolo uno “Scusi, e lei come sta?” all’altra persona ce lo potevano anche mettere in modo da tagliare la testa al toro.

In ogni caso non è questo il modo di far notare che qualcosa non funziona, come io penso fin da principio.

Ad esempio avrei domandato ai medici come è finita lì quella persona, ovvero se è stata curata, e come, a casa prima di finire in ospedale.

Dato che ancora oggi si propongono protocolli di cura senza senso questa sarebbe stata una domanda più che legittima.

Un plauso lo faccio all’operatore sanitario che ha detto “Sono lavato, ma è il mio lavoro”.

Dall’inizio continuo a pensare che no! non sono eroi perché è il loro mestiere, ma nemmeno che, come qualcuno cerca di dire adesso, sono degli assassini.

Anche qui la domanda da fare è “perché i protocolli di cura sono sbagliati e i decisori cercano di escludere le cure che funzionano”.

Un pizzico di responsabilità lo si potrebbe anche dare a chi è sul fronte, ma sarebbe come dire che i soldati in trincea della I Guerra Mondiale che si finsero pazzi e si fecero internare fossero dei codardi.

Fossi in voi andrei a vedere i filmati dei manicomi e i combat film della Grande Guerra per capire cosa significasse essere lì in attesa di fare da carne da macello. E poi farei il paio con quello che sta accadendo da marzo in avanti in alcuni ospedali italiani perché credo proprio che sia la condizione nella quale molti operatori si sono trovati e ancora si trovano.

Non è una excusatio non petita, e nemmeno una accusatio manifesta (si potrebbe pensare ai gerarchi nazisti che a Norimberga ripetevano la litania del “abbiamo eseguito gli ordini”).

Si tratta invece del tentativo di ricordare a tutti quanti che esistono mille sfumature di grigio in questa situazione così come accade in ogni accidente della vita.

Il piano generale è tutta un’altra cosa e per quello occorre leggere e ascoltare i big della finanza e del Tech, oltre agli immancabili amici di Big Pharma.

Ma ripeto che così no! Così non va!

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