A distanza di qualche giorno riporto il discorso pronunciato da Mario Draghi al Massachusetts Institute of Technology di Boston dove gli è stato consegnato l’ennesimo premio a stelle e striscie. Al momento arrivano i premi, sul cui peso effettivo ci sarebbe da ragionare, ma non arrivano poltrone, almeno per ora, e questo elemento è ben più importante di qualsiasi targa.

Di seguito il discorso seguito da alcune considerazioni.

Signore e signori,
È meraviglioso tornare al MIT tra tanti amici.
Ed è un grande onore ricevere il premio Miriam Pozen.
Nel 2020, il premio inaugurale Miriam Pozen è stato assegnato a Stan Fischer.
Stan è stato un vero gigante della politica, grazie alla sua compostezza, alla sua acutezza, alla sua esperienza.
Per me, è stato anche un amico, un mentore, un modello da seguire.
Mi sento immensamente privilegiato di seguire le sue orme.
La mia lezione di oggi trarrà spunto dalle mie esperienze come banchiere centrale e primo ministro dell’Italia.
Vorrei riflettere sui due eventi che, insieme alle sempre crescenti tensioni con la Cina, hanno dominato le relazioni internazionali e l’economia globale nell’ultimo anno e mezzo: la guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione.
Questi eventi hanno colto di sorpresa i responsabili delle politiche.
Abbiamo supposto che le istituzioni che avevamo costruito, insieme ai legami economici e commerciali, sarebbero stati sufficienti per impedire una nuova guerra di aggressione in Europa.
E credevamo che le banche centrali indipendenti avessero padroneggiato la capacità di limitare le aspettative di inflazione, al punto che ci preoccupavamo per una stagnazione secolare.
Con il beneficio della retrospettiva, sosterrò che questi due eventi monumentali non sono venuti dal nulla e non sono sconnessi.
Sono piuttosto entrambi la conseguenza di un cambiamento di paradigma che negli ultimi due decenni e mezzo ha silenziosamente spostato la geopolitica globale dalla competizione al conflitto.
Esso potrebbe portare a tassi di crescita potenziale più bassi e richiedere politiche destinate a produrre deficit di bilancio e tassi di interesse più elevati.
Negli anni ’90, molti credevano che il processo di globalizzazione fosse inarrestabile e che avrebbe diffuso valori liberali e democratici in tutto il mondo.
Lo sviluppo del settore privato, il buon funzionamento dei mercati, la straordinaria crescita degli investimenti diretti esteri e l’espansione del commercio mondiale erano obiettivi ritenuti non solo favorevoli alla prosperità generalizzata, ma anche alla diffusione della democrazia.
La visione dominante era che i valori globali si sarebbero dimostrati convergenti e che questa convergenza avrebbe ridefinito le relazioni internazionali per i decenni a venire.
E si presumeva che le istituzioni internazionali sarebbero state in grado di correggere le distorsioni derivanti dalla globalizzazione – ad esempio sul clima, sulla concorrenza e sui diritti di proprietà – e che le istituzioni nazionali avrebbero sconfitto l’ineguaglianza.
Due esempi hanno rivelato i limiti di questa visione, su cui si basava il consenso alla globalizzazione.
Il primo, forse il più simbolico e conseguente, è stato quello di far entrare la Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc), anche se non era (e non è) un’economia di mercato, nell’assunzione che diventasse tale.
Sebbene questa decisione abbia portato a una storica riduzione della povertà globale e abbia favorito i consumatori e le aziende occidentali, ha avuto un maggiore impatto sociale, politico ed ambientale. L’Omc si è dimostrata incapace di contenerlo.
In secondo luogo, la pretesa che il diffondersi del libero mercato avrebbe recato con sé anche la diffusione dei valori della democrazia liberale è stata infranta dal caso della Russia.
L’Occidente ha visto la crescita di Vladimir Putin come un segno dell’inevitabile modernizzazione della Russia e ha accolto Mosca nei forum multilaterali, a partire dal G7 e dal G20.
Abbiamo supposto che i legami economici e commerciali che abbiamo creato con la Russia sarebbero stati una garanzia di prosperità, un motore di democratizzazione, un preludio per una pace duratura.
Tuttavia, il presidente Putin non ha mai accettato i cambiamenti politici e territoriali che sono seguiti alla caduta dell’Unione Sovietica. Dalla Georgia alla Crimea, il governo russo ha violato ripetutamente la sacralità delle frontiere internazionali, mentre perseguiva un piano premeditato per ripristinare il suo passato imperiale.
I contratti che avevamo firmato con la Russia, in particolare per la fornitura di gas naturale, sono divenuti uno strumento di ricatto. Mentre eravamo impegnati a celebrare la fine della storia, la storia stava preparando il suo ritorno. Anche le nostre istituzioni nazionali si sono dimostrate sorprese da questa sfida.
La rivolta contro l’ordine liberale multilaterale ha guadagnato forza a causa della sua percepita ingiustizia e mancanza di salvaguardie. Nel 2016, l’elezione di Donald Trump negli Stati Uniti e il referendum sulla Brexit in Europa hanno mostrato una diffusa insoddisfazione con il modello economico e politico esistente.
Gli elettori hanno chiesto una maggiore protezione e un maggiore controllo.
Volevano un ruolo più centrale dello Stato, che è tornato in primo piano.
La pandemia di Covid-19 ha accelerato la tendenza a contrastare la primazia dei mercati.
In Europa, abbiamo rapidamente capito che troppe catene di approvvigionamento erano al di fuori del nostro controllo domestico in un momento critico.
L’esempio più chiaro e pericoloso era la catena di approvvigionamento dei beni medici essenziali – dall’equipaggiamento di protezione ai vaccini – dove i governi dovevano adottare una posizione più assertiva.
Anche il settore pubblico ha assunto un ruolo centrale nel sostenere l’economia durante il lockdown e nel dare il via alla ripresa quando si è verificata la riapertura.
I bilanci governativi hanno protetto posti di lavoro, salari, aziende – una mossa che si è rivelata saggia nel limitare i danni dello shock pandemico.
Ma proprio quando pensavamo di aver vinto la guerra contro Covid-19, un nuovo conflitto è venuto a minacciare la nostra prosperità e sicurezza collettive: l’invasione brutale della Russia dell’Ucraina.
Questo non è stato un atto imprevedibile di follia. È stato il successivo passo premeditato nell’agenda del presidente Putin e un colpo determinato all’Ue.
I valori esistenziali dell’Unione europea sono la pace, la libertà e il rispetto della sovranità democratica. Sono i valori emersi dopo il massacro della Seconda guerra mondiale.
Ed è per questo che non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i suoi alleati che garantire che l’Ucraina vinca questa guerra.
Accettare una vittoria russa o un pareggio confuso indebolirebbe fatalmente altri Stati confinanti e invierebbe un messaggio agli autocrati che l’Ue è pronta a rinunciare a ciò per cui si batte, a ciò che è.
Inoltre, segnalerebbe ai nostri partner orientali che il nostro impegno per la loro libertà e indipendenza – un pilastro della nostra politica estera – non è così saldo come sembra.
In breve, sarebbe un colpo esistenziale per l’Ue.
Vincere questa guerra per l’Europa significa avere una pace stabile, e oggi questa prospettiva sembra difficile.
L’invasione della Russia fa parte di una strategia delirante a lungo termine del presidente Putin: recuperare l’influenza passata dell’Unione Sovietica e l’esistenza del suo governo è ora diventata intimamente legata al suo successo.
Ci vorrebbe un cambiamento politico interno a Mosca perché la Russia abbandoni i suoi obiettivi, ma non c’è segno che un tale cambiamento avverrà.
Le conseguenze geopolitiche di un conflitto prolungato al confine orientale dell’Europa sono molto significative.
Più rapidamente ci rendiamo conto di esse, meglio saremo preparati.
In primo luogo, l’Ue deve essere disposta a rafforzare le sue capacità di difesa.
Questo è essenziale per aiutare l’Ucraina per tutto il tempo necessario e per fornire una deterrenza significativa contro la Russia.
In secondo luogo, dobbiamo essere pronti a intraprendere un percorso con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato.
L’alternativa è inviare sempre più armi e giungere ad un accordo tra l’Ucraina e tutti i suoi alleati di questa guerra che contempli elementi di difesa reciproca che ricordano il Trattato che collega gli Stati Uniti alla Corea del Sud.
Ma un tale accordo sarebbe difficile da raggiungere e difficile da attuare. Non avrebbe uguale deterrenza rispetto alla Russia e, come ha osservato Henry Kissinger, non vincolerebbe la strategia nazionale dell’Ucraina. Inoltre, credo che il contesto storico e politico sia diverso da quello coreano.
Se questo si dimostrerà essere il corso degli eventi più probabile, l’incertezza e l’instabilità conseguenti potrebbero essere grandi.
In terzo luogo, dobbiamo prepararci a un periodo prolungato in cui l’economia globale si comporterà molto diversamente dal passato più recente.
Ed è qui che gli spostamenti geopolitici interagiscono con le dinamiche dell’inflazione.
La guerra in Ucraina ha contribuito all’aumento delle pressioni inflazionistiche a breve termine, ma è anche probabile che scateni cambiamenti duraturi da cui derivi un’alta inflazione in futuro.
A breve termine, l’impennata dei prezzi dell’energia, il maggior peso delle limitazioni sull’offerta, dovuti alle interruzioni delle catene del valore e a quelle dei mercati, come i cereali e altri prodotti alimentari, hanno spinto l’inflazione a livelli che non si vedevano da decenni. In Europa, le strozzature bell’offerta erano inizialmente la principale fonte d’inflazione, poiché le aziende dovevano aumentare i prezzi in risposta all’aumento dei costi dell’energia e di altri costi. Negli Stati Uniti, invece, onde successive di stimoli fiscali hanno fatto sì che fosse prevalentemente un fenomeno legato alla domanda.
Ma in entrambi i casi, le banche centrali sono dovute intervenire per riportare il tasso di inflazione verso gli obiettivi previsti dai loro statuti – dando luogo ad un’azione che avevano quasi dimenticato dopo un decennio di bassa inflazione.
Con il beneficio della retrospettiva, è probabile che le autorità monetarie avrebbero dovuto diagnosticare il ritorno dell’inflazione persistente in anticipo.
Ma soprattutto in Europa, data la particolare natura dello shock da offerta, non è chiaro se agire più rapidamente avrebbe frenato l’accelerazione dei prezzi.
L’incapacità dei governi di concordare tempestivamente un tetto ai prezzi del gas naturale ha reso molto più difficile il lavoro della Banca centrale europea.
In ogni caso, quando le banche centrali sono intervenute, hanno mostrato un forte impegno per mantenere l’inflazione sotto controllo e hanno per lo più recuperato il tempo perduto.
Tassi più elevati si stanno ora diffondendo nell’economia e ci sono segnali di rallentamento nel settore manifatturiero.
Tuttavia, i servizi e soprattutto il turismo rimangono forti e i mercati del lavoro rimangono generalmente rigidi rispetto agli standard storici.
L’inflazione si sta dimostrando di essere più resistente di quanto le banche centrali avessero inizialmente ipotizzato.
La lotta contro l’inflazione non è finita e probabilmente richiederà il mantenimento di una cauta stretta monetaria, sia attraverso tassi di interesse ancora più elevati che attraverso l’allungamento dei tempi necessari per un’inversione di tendenza.
Tuttavia, le diverse origini dello shock inflazionistico hanno implicazioni differenti per il compito che attende le banche centrali.
Negli Stati Uniti, l’inflazione è stata in gran parte determinata da un aumento del reddito disponibile delle famiglie durante la pandemia e da un conseguente aumento del risparmio, che è stato successivamente intaccato.
E uno dei fattori chiave che ne è stato il presupposto è stato il trasferimento fiscale durante e dopo la pandemia, che, nel 2020 e 2021, ha spinto la crescita del reddito disponibile oltre il trend degli anni precedenti.
Tuttavia, il reddito disponibile è ora tornato nel suo alveo tradizionale e la politica fiscale si è contratta verso una posizione meno espansiva.
Ciò suggerisce che l’attuale impulso al consumo – e la pressione sui prezzi che ha prodotto – svanirà una volta che il ridimensionamento del risparmio in eccesso si sarà esaurito.
Inoltre, anche se la creazione di posti di lavoro negli Stati Uniti rimane forte, c’è qualche dubbio se i salari prenderanno il sopravvento come driver delle pressioni inflazionistiche una volta che le spese si normalizzeranno.
I salari nominali sono aumentati fortemente, ma manca la prova che la crescita dei salari abbia guidato la crescita dei prezzi. Piuttosto, i salari sembrano aver risposto allo stesso fattore comune della domanda in eccesso e dovrebbero quindi diminuire man mano che la domanda si contrae.
Nell’area dell’euro le sfide sono diverse.
Finora l’inflazione non è stata guidata dagli eccessi della domanda.
A differenza degli Stati Uniti, il consumo reale totale nell’area dell’euro è ancora al di sotto del livello pre-pandemico e ben al di sotto della tendenza pre-pandemica.
Questo contrasto netto riflette il fatto che l’area dell’euro ha subito un forte shock nei rapporti di cambio riflesso della crisi energetica che ha contemporaneamente aumentato i costi e trasferito redditi al resto del mondo.
Finora le aziende hanno reagito cambiando i loro listini: invece di assorbire i costi più elevati riducendo i margini di guadagno, come avevano fatto per la loro maggior parte nel decennio precedente, hanno trasferito questi costi sui consumatori – mantenendo o addirittura aumentando i loro profitti.
I lavoratori, d’altra parte, non sono stati in grado di evitare una perdita di reddito reale. I salari reali alla fine dell’anno scorso erano ancora circa il 4% al di sotto dei livelli pre-pandemici.
E, dato il carattere inerziale della maggior parte delle trattative salariali in Europa, questo processo durerebbe nel tempo fino a quando le perdite salariali reali non saranno state recuperate.
Un periodo più lungo di aumento dei salari comporta naturalmente rischi maggiori. Si rischia che l’inflazione diventi persistente, soprattutto se le imprese continuano ad aumentare i loro listini, come abbiamo osservato finora.
Quindi, per eliminare questi rischi, la domanda deve essere contenuta abbastanza per indurre le imprese a mantenere più bassi i listini ed impedire loro di trasferire sui consumatori i futuri aumenti salariali.
D’altra parte, man mano che la domanda diminuisce, le imprese potrebbero assorbire alcuni degli aumenti salariali impliciti nei contratti di lavoro per i prossimi 1-2 anni.
Al netto di altri fattori, il grado della futura stretta monetaria dipenderà dall’interazione tra le imprese e il lavoro e da quanto profondi saranno gli effetti delle decisioni monetarie passate.
In generale, non mi aspetto che le preoccupazioni per la stabilità finanziaria ostacolino questa strada. I problemi bancari attuali non sono in alcun modo paragonabili a quelli della passata crisi finanziaria e dovrebbero essere affrontati con misure ad hoc, come è stato fatto finora.
Data la dimensione limitata di queste crisi, i governi dovrebbero finanziare, se necessario, qualsiasi intervento necessario e evitare di creare un conflitto per le banche centrali tra perseguire gli obiettivi della politica monetaria e quelli della stabilità finanziaria.
L’esperienza degli anni ’70 è ancora molto chiara nella mente di tutti noi e oggi né i governi né le banche centrali vogliono vedere un disancoraggio delle aspettative di inflazione.
Alla fine, le banche centrali riusciranno a riportare il tasso di inflazione nei loro target.
Ma man mano che le conseguenze a lungo termine della guerra diventeranno visibili, l’economia apparirà molto diversa da quella a cui siamo stati abituati.
Una guerra prolungata tra Russia e Ucraina e le continue tensioni geopolitiche con la Cina continueranno a pesare sul tasso di crescita potenziale dell’economia globale.
Inoltre, il desiderio di garantire che le catene di approvvigionamento siano resilienti agli shock geopolitici significa che i paesi saranno più disposti ad acquistare beni da fornitori affidabili e affini, anche se non sono i più economici, e ad investire nel reshoring in patria la produzione più sensibile
Ciò porterà ad un aumento della capacità produttiva delle economie occidentali, ma non necessariamente della scala e dell’efficienza necessarie per garantire che l’inflazione rimanga bassa come in passato.
Allo stesso tempo, mi aspetto che i governi gestiscano deficit di bilancio permanentemente più elevati.
Le sfide che affrontiamo – dalla crisi climatica alla necessità di rafforzare le nostre catene di approvvigionamento più sensibili alla difesa, soprattutto nell’Ue – richiederanno investimenti pubblici sostanziali che non possono essere finanziati solo tramite aumenti fiscali.
Questi livelli più elevati di spesa pubblica metteranno ulteriore pressione sull’inflazione, oltre ad altri possibili shock dell’offerta da energia e da altri beni.
A lungo termine, è probabile che i tassi di interesse siano più elevati rispetto a quelli dell’ultimo decennio. Allo stesso tempo, la bassa crescita potenziale, i tassi più elevati e i livelli elevati di debito post-pandemico sono un cocktail volatile – e banche centrali più tolleranti con l’inflazione non saranno la soluzione.
Le banche centrali certamente devono essere molto attente al loro impatto sulla crescita, al fine di evitare qualsiasi inutile contraccolpo. Ma il compito ricadrà principalmente sui governi nel ridisegnare le politiche fiscali compatibili con questo nuovo ambiente.
Dovranno imparare a vivere di nuovo in un mondo in cui lo spazio fiscale non è infinito, come sembrava essere il caso quando i tassi di crescita superavano sostanzialmente i costi finanziari.
E, se alcune delle lezioni degli ultimi trent’anni sono state comprese, molto più attenzione dovrà essere posta sulla composizione della politica fiscale.
Ciò dovrebbe essere progettato per aumentare la crescita potenziale, proteggendo e includendo contemporaneamente coloro che hanno maggiormente bisogno di aiuto.
Naturalmente, questa situazione potrebbe cambiare radicalmente se una serie di potenti innovazioni, come l’AI (intelligenza artificiale ndr,) dovesse scuotere il mondo e aumentare la crescita globale.
Sebbene sia difficile prevedere tutte le implicazioni di un tale evento, una cosa è chiara: i governi, gli Stati e le istituzioni devono rispondere in modo proattivo per garantire l’inclusione e la protezione di tutti coloro che sarebbero negativamente colpiti da questi sviluppi. In tutto ciò, l’Ue dovrà affrontare sfide sovranazionali senza precedenti. L’Ue è stata in molti modi al centro dell’esperimento di globalizzazione, ma considerare la creazione del mercato unico e dell’euro solo come un’estensione di questo processo sarebbe una lettura riduttiva. Il progetto è sempre stato più ambizioso. Specie in due importanti dimensioni.
Il modello sociale europeo ha garantito una rete di sicurezza più robusta per coloro che sono stati lasciati indietro rispetto al resto del mondo.
E l’Ue aveva regole e istituzioni collettive forti che – seppur imperfette – garantivano una maggiore protezione contro gli effetti collaterali del libero mercato.
Ma l’Ue non è stata progettata per trasformare il peso economico in potere militare e diplomatico.
Ed è per questo che la risposta europea alla Russia rappresenta una svolta.
Ora, la guerra in Ucraina, come mai prima d’ora, ha dimostrato l’unità dell’Ue nella difesa dei suoi valori fondanti – andando oltre le priorità nazionali dei singoli paesi.
Questa unità sarà cruciale nei prossimi anni.
Sarà cruciale nel ridisegnare l’Unione per accogliere l’Ucraina, i paesi balcanici e i paesi dell’Europa orientale; nell’organizzare un sistema di difesa europeo complementare e accrescitivo rispetto alla Nato; e nel superare tutte le altre sfide sovranazionali che affrontiamo collettivamente: prima di tutto la transizione climatica e la sicurezza energetica, nell’adattare le nostre istituzioni e soprattutto il processo decisionale al nuovo contesto.
E tutto questo, senza indebolire la protezione sociale che rende unica l’Ue.
Insisto sull’unità perché è l’unica strada possibile: i singoli paesi europei, per quanto forti siano, sono troppo piccoli per padroneggiare queste sfide da soli. E più queste sfide sono grandi, più il cammino verso un’unica entità politica, economica e sociale, seppur lungo e difficile, diventa inevitabile. Il nostro viaggio che è iniziato molti anni fa, ed è accelerato con la creazione dell’euro, sta continuando.
Oggi ho parlato dei nostri tempi difficili. Ma i tempi non sono mai stati facili. Sono arrivato qui nell’agosto del 1972. Mentre ero uno studente, abbiamo avuto la guerra del Kippur, diversi shock petroliferi, il crollo del sistema monetario internazionale, il terrorismo imperversava in tutto il mondo e l’inflazione era fuori controllo, solo per citare alcuni eventi di quel tempo e naturalmente eravamo nella guerra fredda.
Siamo stati in grado di superare quelle sfide, sono sicuro che saremo in grado di farlo anche in futuro, grazie alle donne e agli uomini che erano preparati e ispirati.
Voglio rendere omaggio di gratitudine al MIT e più in generale a tutte le istituzioni scientifiche ed educative per il loro immenso contributo nella preparazione e nell’ispirazione di generazioni di donne e uomini simili al loro servizio nel mondo.
Grazie”.

Il discorso di Draghi dal vivo per chi lo volesse ascoltare

Gli spunti sono molteplici, anche se pensando alle parole dello stesso Draghi di qualche settimana fa, egli disse che di fatto non era più della partita nel gran ballo del cosiddetto potere, del quale peraltro lui non è nulla più che una pedina, un impiegato con la licenza di uccidere… l’Italia.
Se quelle parole fossero attendibili, ma sappiamo che Draghi purtroppo conta ancora eccome nel nostro paese, dovrei affermare che quanto ha detto non conta nulla. Ma sappiamo che non è così.
Non mi dilungo su tutti i punti toccati, anche perché sono state inanellate una serie di falsità e mistificazioni della realtà che ci vorrebbe un volume per dissezionarle come si deve. Vado invece a concentrarmi sule previsioni che si leggono tra le righe di quanto detto.
La frase che è passata è quella che fa riferimento alla guerra in Ucraina con l’obbligo di vittoria per quest’ultiima sulla Russia pena il possibile crollo persino della UE. La si può leggere come si vuole al netto del fatto che l’Ucraina non può vincere e la Russia non può perdere, quindi il significato è un altro. Draghi ci sta dicendo che la guerra durerà e in questo come in altri passaggi dice a noi di prepararci a una economia di guerra di cui già vediamo i chiari prodromi da mesi.
C’è poi il discorso legato all’indebitamento degli stati laddove si afferma che questi dovranno continuare a indebitarsi. Qualcuno potrebbe pensare che Draghi sia aperto alla spesa pubblica, ma qui si intende spendere di più per guerra e banche e il risultato sarà quello di portare avanti uno dei grandi progetti delle oligarchie finanziarie internazionali, ovvero quello di trasferire il debito privato sulle spalle degli stati. Per chi non avesse contezza di quanto dico ci sono alcuni articoli sul sito che fanno riferimento ai report della BIS nei quali si evince come dal 2017, anno nel quale il 73% del debito mondiale era in capo ai privati (aziende, famiglie, setore finanziario) e solo i 27% era sul groppone degli stati. Da lì in avanti, e sporattutto con la farsa psico-sanitaria, è inziato il travaso che ci porterà al momento in cui l’indebitamento degli stati sarà dichiarato insostenibile. Dopo di che sarà un gioco da ragazzi convincere i popoli del fatto che gli stati debbano essere aboliti per mettere tutto nelle mani di un unico potere centrale sovranazionale.
A mio avviso questo è il centro vero del discorso di Draghi, inseme al ribadire chel’UE si rafforzerà grazie a queste continu crisi indotte, che da buon esecutore di ordini ci ricorda quale sia il vero obiettivo delle oligarchie dominanti.
Il resto è corredo per far chiacchierare i polli.

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