Oggi si parla quasi esclusivamente dell’attacco USA all’Iran.
Nei nostri tiggì, sui nostri giornali di regime, nelle trasmissioni che solitamente si occupano di altro ci si concentra su quanto accaduto con racconti, ma forse sarebbe meglio dire narrazioni, commenti di parte e previsioni più o meno apocalittiche.
Leggo e ascolto, come di consueto, molte voci e al momento non saprei dire cosa realmente sia accaduto questa notte e cosa potrà accadere dopo.
Qualche elemento però emerge.
Per esempio la curiosa correlazione spuria tra questo attacco e la famigerata “Operazione Barbarossa” che iniziò proprio il 22 giugno di ottantaquattro anni fa (https://www.storicang.it/a/loperazione-barbarossa-e-difesa-di-mosca_15223).
Il Terzo Reich era all’apice del suo potere e pensò bene di provare a prendersi la Russia.
Sappiamo tutti come è andata allora.
Ovviamente non si vuole mettere sullo stesso piano le due date, ma la coincidenza fa un certo effetto.
La differenza sostanziale sta nel fatto che Hitler e soci si sentivano onnipotenti mentre quella degli USA pare essere una delle ultime mosse dell’Impero morente, morente insieme a tutto l’Occidente.
Leggendo e ascoltando sorgono tra l’altro dubbi sulla reale efficacia dell’operazione che Donaldo e soci hanno sbandierato come chirurgica e definitiva aggiungendo frasi a effetto che nemmeno nei migliori spettacoli di cabaret potreste trovare (https://www.whitehouse.gov/articles/2025/06/sunday-shows-president-trumps-pursuit-of-peace-through-strength-in-iran/).
Condivido un articolo pubblicato sul Tehran Times (https://www.tehrantimes.com/news/514798/Experts-commentary-reveals-strategic-miscalculations-in-U-S) nel quale si elencano i commenti espressi da esperti di varia natura e nazionalità i quali sottolineano alcuni aspetti che fanno dubitare della narrazione messa in campo dai nostri media di regime e da tutti i politicanti servi occidentali.
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Il commento degli esperti rivela errori di calcolo strategici negli attacchi statunitensi contro i siti nucleari iraniani
Lungi dal mostrare forza, le dichiarazioni di questi addetti ai lavori statunitensi rivelano profonde ansie, incertezza strategica e un implicito riconoscimento della duratura resilienza dell’Iran di fronte alla continua aggressione del regime sionista di Israele e, più recentemente, del suo principale alleato, gli Stati Uniti.
È bene considerare che l’Atlantic Council, fondato nel 1961 e noto per la sua difesa della politica transatlantica, svolge un ruolo chiave nel plasmare le narrazioni strategiche occidentali.
L’Iran detiene ancora l’iniziativa
Jonathan Panikoff, direttore della Scowcroft Middle East Security Initiative dell’Atlantic Council, ha avvertito che “ora tocca all’Iran” e ha delineato due percorsi di risposta: una rappresaglia limitata o un’escalation più ampia. Fondamentalmente, ha riconosciuto che le capacità militari dell’Iran sono “degradate ma tutt’altro che estinte”, minando la narrazione di Washington di una vittoria totale.
Il timore di Panikoff che Teheran possa reagire per non apparire debole non fa che riaffermare ciò che i leader iraniani sostengono da tempo: la loro posizione è difensiva e radicata nella dignità nazionale.
Il suo avvertimento che la crisi “potrebbe portare a una guerra regionale” rivela i timori occidentali di conseguenze indesiderate derivanti da un’eccessiva influenza.
Dichiarare vittoria pur riconoscendo l’insicurezza
Matthew Kroenig, vicepresidente dello Scowcroft Center dell’Atlantic Council, ha salutato l’attacco come potenzialmente “il più grande risultato della politica estera statunitense dai tempi della Guerra Fredda”. Eppure, allo stesso tempo, ha ammesso che le precedenti amministrazioni non sono riuscite a risolvere la situazione di stallo diplomaticamente e che “solo gli Stati Uniti avevano la capacità di distruggere” le strutture iraniane rinforzate. Le sue osservazioni non suggeriscono una fine trionfale, ma una capitolazione alla forza dopo decenni di negoziati falliti. Kroenig ha anche affermato che l’Iran ha “poche buone opzioni di ritorsione”, un’affermazione che ignora le capacità asimmetriche dell’Iran e le partnership strategiche nella regione. Le sue osservazioni riflettono la continua lotta dell’Occidente per conciliare il suo predominio militare con la capacità dell’Iran di resistere, adattarsi e reagire.
Pressioni sull’Iran affinché conceda concessioni
Daniel B. Shapiro, ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele, ha interpretato gli attacchi come un’opportunità per costringere l’Iran a un nuovo ciclo di diplomazia, ma solo dopo aver imposto condizioni simili a una resa: la sospensione del sostegno agli alleati, la rinuncia ai programmi missilistici e la fine definitiva dello sviluppo nucleare.
La logica di Shapiro presuppone che l’Iran ammetta la sconfitta dopo essere stato colpito, ma la storia dimostra che l’Iran prospera sotto pressione e raramente si piega a potenze arroganti.
Ammettendo che l’Iran potrebbe resistere all’apparire debole, Shapiro mette in luce il difetto del modello di prepotenza di Washington: la pressione può alimentare la ribellione, non l’acquiescenza.
Stabilità del mercato, non giustificazione morale
Landon Derentz, direttore del Global Energy Center dell’Atlantic Council, ha definito gli attacchi come un simbolo della “lungimiranza geopolitica” americana e ne ha elogiato l’assenza di perturbazioni nei mercati energetici.
Questa visione tecnocratica privilegia il flusso di petrolio rispetto al diritto internazionale o al costo umano, confermando ciò che molti nel Sud del mondo credono: la politica statunitense nella regione è guidata più dall’economia che dall’etica.
L’elogio di Derentz per la “risposta calibrata” offre scarso conforto agli iraniani, la cui sovranità è stata calpestata da aerei stranieri. Il fatto che la stabilità del mercato rimanga intatta non fa che sottolineare quanto gli interessi occidentali siano isolati dalle conseguenze che impongono agli altri.
Identità e determinazione dell’Iran intatte
Alan Pino, ex agente della CIA e ora senior fellow dell’Atlantic Council, ha riconosciuto il fermo impegno dell’Iran nei confronti della propria identità nucleare. Ha affermato che Teheran ha “messo in gioco buona parte della sua identità” sul mantenimento della sua impresa nucleare ed è improbabile che la abbandoni sotto minaccia. Il suo avvertimento, secondo cui gli attacchi di Trump inviano un messaggio a Russia e Cina, non fa che confermare l’importanza geopolitica dell’Iran.
Nessuna chiarezza sul successo della missione
Tressa Guenov, responsabile della sicurezza dell’Atlantic Council, ha ammesso che ci vorranno tempo e intelligence per sapere se gli Stati Uniti abbiano effettivamente avuto successo.
Ha avvertito che l’Iran potrebbe ricorrere alla guerra informatica o per procura in risposta. Le sue dichiarazioni rivelano una verità fondamentale: questa cosiddetta “decapitazione” potrebbe essere più simbolica che reale. Senza prove verificabili, la narrativa statunitense si basa sul teatro politico, non sulla finalità strategica.
Un attacco potrebbe espandere il conflitto
Danny Citrinowicz, del gruppo di lavoro Iran Strategy Project dell’Atlantic Council, ha ammesso apertamente che l’attacco potrebbe espandere la guerra anziché porvi fine. Ha osservato che Israele spera che gli Stati Uniti si spingano oltre, ma ha avvertito che se Washington si ritirasse e l’Iran rimanesse fermo, il risultato potrebbe essere una lunga guerra di logoramento. La sua analisi conferma ciò che i funzionari iraniani sostengono da tempo: che queste azioni militari non mirano al disarmo, ma alla destabilizzazione. L’Iran, con decenni di esperienza nell’affrontare pressioni simili, difficilmente si arrenderà.
Usare l’Iran per contrastare la Russia
John E. Herbst, ex ambasciatore statunitense in Ucraina, ha fatto l’ammissione più rivelatrice: l’attacco all’Iran rafforza la posizione di Trump contro la Russia.
Questo collegamento mette a nudo la più ampia strategia americana: usare l’Iran non come fine, ma come mezzo in una competizione globale. L’Iran, in quest’ottica, è semplicemente uno strumento nella rivalità tra superpotenze degli Stati Uniti, a sottolineare l’assenza di una reale preoccupazione per la pace o la stabilità nella regione.
Un’ultima parola
Mentre gli esperti dell’Atlantic Council hanno tentato di giustificare e celebrare l’attacco statunitense agli impianti nucleari iraniani, le loro valutazioni frammentate e spesso contraddittorie rivelano una verità più profonda: l’operazione è stata meno una vittoria strategica e più un riflesso dell’impazienza, della confusione e del declino dell’influenza americana.
D’altra parte, i funzionari iraniani hanno dimostrato che la Repubblica Islamica rimane salda nel suo diritto sovrano di perseguire la tecnologia nucleare pacifica e di difendere il suo popolo dalle aggressioni straniere.
Negli ultimi dieci giorni, e nonostante l’immensa pressione militare, la posizione dell’Iran come potenza regionale e attore globale è rimasta intatta e il suo popolo, ancora una volta, ha dimostrato resilienza di fronte alle avversità causate non da preoccupazioni regionali ma da capitali lontane guidate da ambizione ed errori di calcolo.
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Dalle analisi espresse colgo alcuni spunti di riflessione.
Il primo riguarda l’ottenimento, così come paventato da alcuni, di un “regime change” con la sollevazione popolare contro gli ayatollah.
Già nei giorni scorsi avevo visto un filmato da Tehran nel quale si raccontava della protesta contro Ali Khamenei dai balconi della città.
La consueta propaganda che ovviamente non aveva alcun fondamento.
Il fatto è che l’Iran conservi la sua identità e che al contrario la popolazione, con le immancabili eccezioni che paiono però residuali, si stia unendo contro l’aggressione subita prima da Israele e poi dagli USA.
Quel che dice l’ex ambasciatore John E. Herbst a mio avviso è invece sbagliato.
Egli afferma che l’attacco all’Iran è in funzione anti-russa.
Escludere la Cina mi pare sia quantomeno miope, ed è anzi probabile che sia proprio la Cina con la sua Via della Seta il vero obiettivo dell’operazione.
Per il resto ribadisco che nemmeno i diretti interessati sanno realmente cosa stia accadendo – basti vedere la faccia da pistola che aveva Donaldo nella situation room alla Casa Bianca – per cui meglio non azzardare ipotesi o previsioni.
Confidare nei popoli e nella loro capacità di mettere all’angolo le bande di pazzi scatenati che stanno a Tel Aviv, Washington e Tehran è l’unica scelta possibile.
Il problema sta nel fatto che i popoli hanno bisogno di leader, da soli non hanno mai cambiato alcunché. Non credo che lo faranno neanche questa volta.